L'ipocrisia di noi benpensanti

Chi non si è indignato quando è stata fatta la proposta di prendere le impronte digitali ai Rom?

Chi non ha gridato allo scandalo quando ha visto i sacchi di immondizia inquinare la bellezza di Napoli?

Chi non ha sentito pietà per i barboni morti di freddo sulle panchine di Milano e di Roma o per i clandestini che in mezzo a un mare gelido, a stento riescono a raggiungere le nostre coste per poi essere rimandati in patria?

Chi non trova ingiusto che la crisi attuale della economia, nata dai giochi e dalle speculazioni di borsa a un livello a noi del tutto sconosciuto, debba essere pagata dai lavoratori, dai precari, dai pensionati più poveri, dai giovani in cerca di lavoro?

Chi non inorridisce nel vedere scene di guerra selvaggia e crudele come quella che insanguina la Palestina e tanti Paesi dell’Africa di cui ora senza un perché nessuno ci dà più notizie?

Noi che ci sentiamo dalla parte dei giusti ci indigniamo, inorridiamo, abbiamo pietà…

Eppure, sono certa che faremmo ricorso se insediassero un accampamento Rom nel nostro quartiere perché “gli zingari” sono sporchi e rubano. Insorgeremmo in gruppo per allontanare quanto più possibile dalla zona in cui abitiamo le nuove discariche e gassificatori per i rifiuti.
Non accoglieremmo mai, neanche temporaneamente, un immigrato, un senzatetto, un povero qualunque perché, pensiamo, potrebbe non andarsene più e ci rovinerebbe la vita.

Per la gente lontana poi, quelli di altri mondi, altri continenti, ci pensi lo Stato, la Chiesa, l’ONU, gli Enti preposti all’assistenza, noi… noi paghiamo le tasse!

Noi abbiamo già i nostri problemi.

Ed è vero. Abbiamo i nostri problemi e ci “incartiamo” in essi credendo che, risolvendoli, potremmo vivere tranquilli come in un’ “isola felice”.

Dimentichiamo purtroppo che l’umanità è una. Insieme possiamo salvarci o insieme… affonderemo. Questo, se mai non lo avessimo capito prima, il processo di globalizzazione a tutti livelli di comunicazione ce lo ricorda e ripropone ogni giorno.

Ma, più profondamente, proviamo a pensare a noi come umanità in cammino verso una maggiore consapevolezza di sé, della ragione del proprio vivere, della ricerca di una felicità non più condizionata dall’avere (affetti, sicurezze, consensi, potere, denaro, beni…) ma centrata sull’essere, che, liberato dai bisogni e quindi dalla paura, si apre a una dimensione di vera fratellanza universale.

Si può fare. Come dice il titolo del bellissimo film di Giulio Manfredonia. Si può fare.

Si può, nel nostro piccolo o meno piccolo ambiente di familiari e di amici, portare un pensiero nuovo da cui possa nascere un’azione concreta di solidarietà.

“Io privilegiato che, senza alcun merito personale, sono nato in un ambiente sano, ho usufruito di una buona o almeno sufficiente educazione, ho la possibilità di vivere in una casa e di non chiedermi con angoscia ogni giorno se avrò cibo per me e i miei figli, ho certamente più vestiti di quanti realmente mi necessitano, ho denaro anche per le vacanze… soprattutto ho un cuore sensibile ai bisogni degli altri, ebbene io mi riconosco umano fra gli umani e mi assumo la mia parte di responsabilità nel percorso di crescita e di liberazione che tutti ci riguarda e scelgo liberamente di fare qualcosa”.
Questo il pensiero nuovo che tradotto in azioni concrete, (non importa dove, con chi e per chi e quanto piccole nascoste o grandi esse siano) a mio parere, può frantumare il muro dell’ipocrisia che sta separando noi benpensanti dalla realtà sofferente del resto dell’umanità.
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