Un nuovo tabù: la sofferenza


Vorrei condividere con voi alcune riflessioni che sto facendo, sia per le particolari situazioni che in questo periodo mi capita di vivere, sia per l’esperienza che la relazione con gli altri mi porta.

Mi sembra che in questo momento storico si stia passando dall’idea malsana della rassegnazione alla sofferenza (frutto forse di una errata interpretazione del messaggio cristiano) all’idea folle, anzi al delirio di poter controllare la vita ad ogni costo e quindi credere di poter evitare la sofferenza.

Di fronte a situazioni di disagio psicologico, di profondo dolore, a volte di invalidità o di cosiddetta malattia terminale (periodo che dal punto di vista medico porta inevitabilmente alla morte), l’atteggiamento più diffuso è quello di chiudere, vale a dire evitare lo stato di sofferenza.

Se si tratta di rapporti (crisi di coppia o simili) si preferisce rompere il rapporto prima ancora di aver tentato di capire il perché e il percome, cosa questa che potrebbe comportare un mettersi in discussione, un rinunciare a qualcosa di nostro e quindi… soffrire.

Se si tratta di disagi esistenziali, in periodi in cui ci troviamo a dover definire meglio scopi e priorità nella nostra vita, evitiamo di stare nel problema per capirne di più; preferiamo fare un viaggio, distrarci.

Nel caso del dolore fisico c’è sempre un farmaco che copre il sintomo prima che questo abbia il tempo di manifestarsi appieno così che si possa… ascoltare ciò che ha da dire la malattia. E, se la malattia è grave o invalidante… meglio la morte.

Forse siamo vittime di un equivoco? Forse le soap-opere o le isole dei famosi-felici ci stanno condizionando?

Credo che la ragione sia molto più seria. Si dimentica o si ignora, o si nega la dimensione spirituale dell’uomo e io credo che solo in questa dimensione si può dare un senso alla sofferenza.

Da sempre l’uomo cerca di capire e di dare risposte e/o soluzioni ai problemi esistenziali che inquietano l’animo, in primis proprio la sofferenza e la morte. Non ci riesce né potrà farlo se non accetta il limite proprio della sua mente umana e non si abbandona a una realtà che a lui sembra assurda e inaccettabile e che viceversa è connaturata proprio con la sua imperfezione e limitatezza.

Con la New Age è stato introdotto il concetto che siamo noi e sempre noi che con il nostro comportamento, il nostro modo di pensare, le nostre azioni creiamo la felicità o la sofferenza nella nostra vita ed è stata una lancia spezzata in favore dello spazio di libertà che ogni umano possiede nel determinare il proprio destino.

Ma non si possono neanche ignorare i condizionamenti creati dai limiti e le possibilità dell’ambiente familiare, sociale e culturale in cui siamo venuti a trovarci, dalle peculiarità del temperamento, dalle opportunità che la Vita offre, dalla familiarità genetica con certe malattie, dall’inquinamento ambientale e altro ancora che sarebbe lungo elencare.

Allora, chiediamoci: che senso ha continuare a sfuggire o peggio negare l’idea che la sofferenza è nella vita dell’uomo? Macinare i nostri giorni difficili pensando che essi sono soltanto una parentesi e che presto “tutto si sistemerà di nuovo” e saremo ancora sereni e felici?

Non c’è uno stato di beata (o beota?!) felicità da inseguire, riconoscendolo come l’unico che valga la pena di vivere: c’è l’uomo con tutta la sua imperfezione umana che nasce e cresce cercando di sviluppare il seme che ha dentro, vale a dire cercando di esprimersi nell’originalità che gli è propria.

E questo ha un prezzo, una fatica intrinseca. È un percorso da fare, più o meno breve, ma nel quale si trovano tutte le informazioni e il cibo (esperienze) di cui si ha bisogno. A volte ci si ostina ad andare in una certa direzione nonostante le indicazioni diverse che la vita ci manda e qui può accadere che il corpo aiuti, attraverso un disagio o una malattia, a scegliere diversamente. Altre volte sono le emozioni a tenerci bloccati e anche in questo caso la sofferenza che ne deriva può aiutare a sciogliere nodi o vecchi rancori.

Anche la sofferenza che ci arriva dagli altri è parte del percorso (incomprensioni, crisi di coppia, separazioni, lutti…) ma ha un senso e ci appartiene perché possiamo elaborarla e crescerci dentro.

Scegliere di non soffrire equivale a scegliere di non voler crescere. Molti, soprattutto fra i nuovi giovani, scelgono questo, con l’aiuto di pillole, droghe, alcool e quant’altro possa distogliere dal malessere del momento, fino ad arrivare a considerare e purtroppo a volte a praticare il suicidio, immaginato come l’unica soluzione per evitare la sofferenza.

Il saggio Qoelet (IV sec. a.C.) metteva in bocca a Re Salomone queste parole:

tempo di nascere, tempo di morire
tempo di piantare, tempo di sradicare
tempo di demolire, tempo di costruire
tempo di piangere, tempo di ridere
tempo di lutto, tempo di baldoria…
(3, 1-4).
In ogni vita c’è questo e quello sta a noi viverli in modo sereno e utile perché tutto serva al nostro vero, profondo ben-essere.

Antonietta Bardellini
nel Giornalino dell'Associazione - aprile 2005
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